Testo scritto per “Vita nei campi” rubrica di Agricoltura a cura della redazione di Udine del TGR FVG in onda su radio UNO RAI.
Mi sono messa gli scarponi, ho imbracciato la macchina fotografica e sono andata a Claut, in un campo coltivato a rape. Sì, ma non una rapa qualunque, intendiamoci, ma la Brassica rapa rotunda o rapa tonda di Milano dal colletto viola. Dalla Valle del Vajont alla Valcellina, la rapa in questione è stata coltivata per molto tempo. In passato, rappresentava un cibo di sussistenza indispensabile durante i lunghi mesi invernali in cui i vegetali freschi scarseggiavano.
La raccolta autunnale di queste orticole le predisponeva a una lunga conservazione attraverso un processo di fermentazione che, nel tempo, si è trasformato in un vero e proprio patrimonio di gusto, saggezza e identità territoriale.

Le rape, radici e foglie, possibilmente raccolte dopo la terza gelata, venivano lavate, quindi sbollentate e tagliate a tocchetti. Successivamente, erano riposte in una salamoia salata dentro appositi contenitori per almeno 40 giorni.
Come tutti i cibi “della tradizione”, anche questo è soggetto a innumerevoli minime varianti di metodo: alcuni usavano aggiungere foglie di verza, chicchi di mais, aglio o rafano; altri sostituivano il sale con l’aceto. Il pepe era facoltativo. Riposte a strati nell’apposito mastello di legno, ben sommerse nel liquido che garantiva un ambiente anaerobico, la magia della trasformazione aveva inizio.
Il periodo di fermentazione delle rape si concludeva durante le festività natalizie, ed era allora che nei paesi riecheggiavano, di cortile in cortile, dei suoni ritmati. Quasi un richiamo al convivio del focolare domestico, dopo i tanti mesi passati all’estero a cercar fortuna. Quel battito sordo, che echeggiava nel cuore, era prodotto dal manarìn (un grosso pestello) che batteva sulla pestatha (asse in legno) durante la fase di pestatura delle rape fermentate.
Ed ecco dunque che le rape così frantumate incontravano l’ont (il grasso/strutto), l’aglio e la cipolla e, dopo una cottura lenta che andava via via arricchendosi di profumi, diventava il pestìth (o pestìf, pastìc, o pestìç), un piatto che ancora oggi è l’essenza di un territorio, oltre che un presidio Slow Food.